Dott.ssa Maria Teresa Cascio

Psicologa Psicoterapeuta cognitivo comportamentale

Dott.ssa Maria Teresa Cascio

Psicologa Psicoterapeuta cognitivo comportamentale

Img 0347

Dott.ssa Maria Teresa Cascio - Aree di interesse

L’ansia fa parte di una particolare risposta automatica ai pericoli fisici, la cosiddetta risposta di attacco o fuga, che è presente in tutti gli animali. Questa risposta determina modificazioni fisiologiche dirette a fornire all’animale più forza e più velocità per poter fuggire dal pericolo o lottare contro di esso.

E’ quindi una reazione del tutto naturale e fisiologica che abbiamo in situazioni di potenziale pericolo: provando paura siamo spaventati e questo fa si che reagiamo a situazioni che possono mettere a rischio la nostra sopravvivenza. Se per esempio non reagiamo quando stiamo attraversando la strada e vediamo una macchina che ci viene incontro a tutto velocità, possiamo immaginare benissimo le conseguenze.

Quindi provare ansia a volte può essere funzionale, e questo è evidente nelle situazioni in cui siamo per esempio “messi alla prova”. Chi di noi non ha provato ansia prima di un esame o di un colloquio di lavoro? L’ansia diventa disfunzionale quando la risposta ansiosa diventa eccessiva per frequenza o per intensità e soprattutto quando si considerano pericolose situazioni che di per sé non lo sono.

Vediamo nel dettaglio cosa accade.

MODIFICAZIONI FISIOLOGICHE:

  • La mente diventa vigile
  • La frequenza cardiaca aumenta e la pressione arteriosa si alza per far arrivare una maggiore quantità di sangue nei muscoli
  • Il ritmo del respiro aumenta per fornire più ossigeno al sangue
  • Aumenta la sudorazione per evitare il surriscaldamento del corpo
  • I muscoli si tendono, pronti per l’azione
  • Aumenta la quantità di sangue inviata ai muscoli e diminuisce quella per lo stomaco e l’intestino. La digestione si ferma. Il cibo si ferma nello stomaco e può dar luogo a una sensazione di nausea o di “nodo allo stomaco”
  • La salivazione diminuisce e la bocca si secca
  • Il fegato libera zucchero per fornire velocemente più energia

 

Queste modificazioni sono causate dal rilascio nel sangue di diversi ormoni, il più importante dei quali è l’adrenalina.

La risposta di attacco o fuga si sviluppa immediatamente dopo che si è percepito un pericolo ed è di breve durata, perché non appena il pericolo cessa gli ormoni rilasciati sono rapidamente metabolizzati (distrutti).

La risposta di attacco o fuga può essere istintiva (es: negli esseri umani sono istintive le paure per i serpenti e per i luoghi alti), ma gli animali, compresso ovviamente l’uomo, possono anche imparare ad avere paura di altre situazioni che vengono collegate alla percezione di una minaccia e al sentirsi ansiosi.

Si parla di DISTURBO D’ANSIA quando la risposta di attacco o fuga viene scatenata regolarmente da stimoli o situazioni poco pericolose e che non rappresentano certo una minaccia per la sopravvivenza.

La risposta di ATTACCO O FUGA è una risposta automatica alla percezione di una grave minaccia e non può essere modificata.

SI PUO’ INVECE MODIFICARE IL MODO DI INTERPRETARE SITUAZIONI ED EVENTI

EVITAMENTO

Quando l’ansia diventa grave, si tende in generale a fuggire dalla situazione.

L’allontanamento in un primo momento serve perché l’ansia decresce rapidamente, ma è controproducente a lungo andare, perché ogni volta che ci allontana da una situazione aumenta la paura di affrontarla.

Le persone imparano a riconoscere le situazioni in cui sono assalite da ansia o panico e cominciano spesso a provare ansia solo all’idea di affrontarle (ANSIA ANTICIPATORIA) e quindi tendono a evitarle del tutto.

Chi evita di esporsi a una situazione non può sapere che cosa sarebbe successo se la avesse affrontata e non ha modo di disconfermare il suo pensiero, spesso catastrofico, sull’esito di tale.

L’evitamento determina una diminuzione dell’autostima e della fiducia in se stessi e tende a estendersi anche ad altre situazioni simili per un fenomeno chiamato GENERALIZZAZIONE.

PERCHE’ SI EVITA?

La persona evita le situazioni che pensa possano dar luogo a un attacco, ad esempio i negozi dopo aver avuto più attacchi di panico proprio nei negozi; vengono evitate particolarmente le situazioni da cui sia difficile uscire (e quindi a cui non ci si possa sottrarre facilmente nella speranza di interrompere un eventuale attacco di panico) o in cui sia difficile ottenere aiuto.

Per paura delle conseguenze sociali che potrebbe avere un attacco di panico. se si verificasse proprio lì. Paura di perdere la faccia in caso di attacco( paura che mi vedano svenire e comincino a considerarmi debole ed inaffidabile).

Per paura di poter fare qualcosa di spiacevole o brutto (paura di perdere il controllo e fare del male a se stesso o ad una persona cara).

Per paura che succeda in un luogo pericoloso (ess: paura di guidare la macchina per paura di un incidente . . .)

QUALI FATTORI CONTRIBUISCONO ALL’ANSIA?

Ti senti teso o preoccupato per qualcosa? Ci sono nella tua vita condizioni che ti rendono ansioso o infelice? Puoi fare qualcosa per migliorare la situazione?

Fumi troppo o bevi troppi tè o caffé? Tabacco, tè o caffé sono sostanze stimolanti che aumentano il livello di base di attivazione e facilitano la risposta di attacco o fuga.

Bevi troppi alcolici? In un primo momento, l’alcol allevia l’ansia ma dopo qualche ora diventa stimolante e facilita l’iperventilazione. Inoltre, sotto l’influenza dell’alcol non si è se stessi e non si può imparare a comportarsi meglio; ci si sente ancora più vulnerabili.

Dormi troppo poco? La stanchezza può predisporre l’ansia.

Soffri di dolori mestruali o tensione premestruale? Nella settimana precedente al ciclo, alcune donne avvertono con maggiore intensità le sensazioni del proprio corpo, anche sensazioni simili a quelle dell’attacco di panico. Essere consapevoli aiuta ad affrontarle meglio.

Hai difficoltà a essere assertivo? Se trovi difficoltà a dire “no”, puoi sentirti frustrato, teso. Imparare ad essere assertivi riduce la tensione.

Fai troppe cose o troppo in fretta? Lavori troppo o troppo in fretta? Cerchi di essere “perfetto”? Rallenta e prenditi il tempo necessario. Organizzati in modo da non dover correre sempre da un posto all’altro. L’attività fisica aumenta il bisogno di ossigeno, il che porta ad un aumento della frequenza e della profondità del respiro. Riuscirai ad ottenere di più restando calmo e lavorando a un ritmo ragionevole.

Fai regolarmente attività fisica? Fare esercizio fisico migliora il funzionamento del sistema cardiovascolare e anche l’aspetto fisico. Migliora la qualità del sonno e fa sentire più riposati al mattino, migliora l’umore, aiuta a ridurre il livello di tensione e di ansia.

IMPARARE A RILASSARSI

Una componente della risposta di attacco o fuga è rappresentata dall’aumento della tensione dei muscoli, aumento di tensione che ha lo scopo di renderli più pronti e più efficienti. I muscoli si rilasciano poi quando è passato il pericolo. Anche in condizioni normali la tensione muscolare è variabile nell’arco di una giornata, a seconda delle circostanze.

In chi soffre di attacchi di panico l’aumento della tensione muscolare dura a lungo e continua a comunicare al cervello sensazioni di allerta. Il cervello diventa più sensibile e risponde a stimoli anche piccoli come se fossero minacce reali, con l’ansia, l’iperventilazione e il panico.

Col rilassamento si possono riuscire a controllare la tensione muscolare e l’ansia che ne consegue, ma imparare a rilassarsi è utile in ogni modo, anche quando si sta bene e si vuole stare ancora meglio.

Poiché un certo grado di tensione può essere utile, è importante imparare innanzitutto a distinguere la tensione utile da quella eccessiva. Nelle circostanze abituali della vita moderna la tensione muscolare serve a poco, solo allo scopo di mantenere la cosiddetta postura (posizione) del corpo: seduta, in piedi o durante il cammino.

La teoria cognitiva dei disturbi emozionali di Beck (1967, 1976) afferma che l’ansia si accompagna a vere e proprie distorsioni del pensiero.

Un processo disfunzionale di questo tipo si manifesta a livello superficiale come un flusso di pensieri automatici negativi nell’esperienza cosciente del paziente.

Le disposizioni nell’elaborazione cognitiva e i pensieri automatici negativi riflettono le convinzioni e le assunzioni soggiacenti immagazzinate nella memoria dell’individuo.

La cura più efficace per l’ansia sia prestazionale che sociale è rappresentata dalla Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: è centrata sul “qui ed ora”, sul trattamento diretto del sintomo, e punta da un lato a modificare i pensieri disfunzionali, dall’altro a offrire alla persona migliori capacità ed abilità nel affrontare le situazioni temute.

E’ un’improvvisa crisi di paura, di ansia, di grosso malessere, fondamentalmente una forte risposta di attacco o fuga. Di solito, i sintomi insorgono improvvisamente e raggiungono la massima intensità nell’arco di 5-10 min.

Durante un attacco di panico possono essere presenti tutti i seguenti sintomi o alcuni di essi:

  • Mancanza di respiro e senso di soffocamento
  • Sentire battere forte il cuore
  • Sudorazione
  • Tremori
  • Rossore
  • Voce tremula o rauca
  • Nausea o impulso a vomitare
  • Vertigine o lieve giramento di testa
  • Formicolio nelle dita o nei piedi
  • Senso di costrizione o dolore al torace
  • Vampate di caldo o di freddo
  • Senso di irrealtà
  • Impressione di non essere in grado di pensare lucidamente o di essere incapace di parlare
  • Impulso a fuggire
  • Paura di morire
  • Paura di perdere il controllo e di impazzire

 

CONTROLLO DELL’IPERVENTILAZIONE O ECCESSO DI RESPIRAZIONE

Ogni volta che una persona inspira, l’ossigeno entra nei polmoni dove si lega all’emoglobina, cioè a una molecola dei globuli rossi del sangue.

L’emoglobina porta l’ossigeno in tutto il corpo e lo rilascia alle cellule, che usano l’ossigeno come fonte di energia e producono un “gas di scarico”, l’anidride carbonica (CO2).

L’anidride carbonica passa nel sangue e viene trasportata ai polmoni per essere eliminata con l’aria espirata.

L’emoglobina libera l’ossigeno solo in presenza di anidride carbonica, per cui è fondamentale respirare ossigeno ma è anche importante che non manchi nel sangue l’anidride carbonica.

Il corpo lavora meglio quando ossigeno e anidride carbonica sono in equilibrio.

L’iperventilazione, cioè il respirare con una frequenza e/o con profondità eccessive rispetto ai bisogni dell’organismo in quel momento, porta ad avere nel sangue troppo ossigeno e troppo poca anidride carbonica.

Con l’iperventilazione arriva sì l’ossigeno nei polmoni, ma sorprendentemente ne arriva meno a certe aree del cervello e del corpo, dove passa meno sangue e si libera meno ossigeno.

SINTOMI:

  • Senso di mancanza d’aria
  • Senso di testa leggera
  • Senso di stordimento
  • Senso di irrealtà e di stranezza del proprio corpo
  • Senso di irrealtà delle cose circostanti
  • Senso di confusione
  • Tachicardia, cuore che batte più velocemente
  • Sensazione di spilli o di formicolio alle mani, ai piedi e al viso
  • Rigidità muscolare
  • Mani sudate
  • Bocca o gola secca

 

Uno dei sintomi più angoscianti tra quelli causati dall’iperventilazione è la sensazione di mancanza d’aria.
Questa sensazione può portare a cercare di respirare ancora più profondamente o velocemente, il che però peggiora i sintomi.

Se l’iperventilazione dura a lungo si possono avere anche questi sintomi:

  • Vertigini
  • Nausea
  • Sensazione di fatica a respirare
  • Sensazione di costrizione, di peso o di dolore al torace
  • Paralisi muscolare
  • Aumento dell’apprensione e del senso di allarme, fino al terrore che qualcosa di terribile stia per accadere, ad esempio un attacco di cuore, un’emorragia cerebrale o persino la morte

 

Poiché chi iperventila consuma più energia di quanta ne abbia bisogno, si possono anche avere i seguenti sintomi:

  • Sentirsi accaldati o arrossati
  • Sudare molto
  • Sentirsi stanchi
  • Sentire i muscoli affaticati, specie i muscoli del torace

 

IMPARARE A RILASSARSI

Una componente della risposta di attacco o fuga è rappresentata dall’aumento della tensione dei muscoli, aumento di tensione che ha lo scopo di renderli più pronti e più efficienti. I muscoli si rilasciano poi quando è passato il pericolo. Anche in condizioni normali la tensione muscolare è variabile nell’arco di una giornata, a seconda delle circostanze.

In chi soffre di attacchi di panico l’aumento della tensione muscolare dura a lungo e continua a comunicare al cervello sensazioni di allerta. Il cervello diventa più sensibile e risponde a stimoli anche piccoli come se fossero minacce reali, con l’ansia, l’iperventilazione e il panico

Col rilassamento si possono riuscire a controllare la tensione muscolare e l’ansia che ne consegue, ma imparare a rilassarsi è utile in ogni modo, anche quando si sta bene e si vuole stare ancora meglio.

Poiché un certo grado di tensione può essere utile, è importante imparare innanzitutto a distinguere la tensione utile da quella eccessiva. Nelle circostanze abituali della vita moderna la tensione muscolare serve a poco, solo allo scopo di mantenere la cosiddetta postura (posizione) del corpo: seduta, in piedi o durante il cammino.

La teoria cognitiva dei disturbi emozionali di Beck (1967, 1976) afferma che ansia e attacchi di panico si accompagnano a vere e proprie distorsioni del pensiero.

Un processo disfunzionale di questo tipo si manifesta a livello superficiale come un flusso di pensieri automatici negativi nell’esperienza cosciente del paziente.

Le disposizioni nell’elaborazione cognitiva e i pensieri automatici negativi riflettono le convinzioni e le assunzioni soggiacenti immagazzinate nella memoria dell’individuo.
La cura più efficace per il disturbo da attacco di panico è rappresentata dalla Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: è centrata sul “qui ed ora”, sul trattamento diretto del sintomo, e punta da un lato a modificare i pensieri disfunzionali, dall’altro a offrire alla persona migliori capacità ed abilità nel affrontare le situazioni temute.

L’ipocondria o il disturbo d’ansia per la salute (health anxiety) è caratterizzato dalla paura e dalla preoccupazione persistente di avere una malattia fisica. Tutti noi abbiamo, almeno una volta nella vita, dei momenti in cui ci preoccupiamo per la nostra salute. Ma quando queste preoccupazioni diventano quotidiane e persistenti, a causa di interpretazioni sbagliate o enfatizzazione esagerata di sintomi fisici di lieve entità, possono creare un disagio tale da incidere sullo stile di vita con conseguente disabilità nel funzionamento sociale, lavorativo o interpersonale.

Tali preoccupazioni rimangono nonostante controlli ripetuti o rassicurazione da parte di medici, amici, parenti. Spesso infatti si hanno frequenti pensieri intrusivi e sensazioni fisiche che spingono a cercare rassicurazioni. L’influenza dei media e internet può essere un fattore che contribuisce al manifestarsi del disturbo in soggetti vulnerabili: l’utilizzo di internet come fonte di informazione per rilevare i sintomi che vengono percepiti può essere deleteria portando a un autodiagnosi catastrofica.

Ma capita anche l’opposto: una reazione all’ipocondria infatti può essere quello di evitare il contatto con i medici per paura di una diagnosi fatale, fino ad arrivare a trascurare la propria salute. L’evitamento può estendersi anche alla visione di telefilm, film o programmi che trattano l’argomento di patologie fisiche. Inoltre si può evitare di fare sport o esercizi fisici perché considerati un rischio per la propria salute: “Se ho paura di avere un attacco di cuore è meglio che non mi affatichi eccessivamente”.

Altra caratteristica è il controllo ossessivo (body checking) del proprio corpo che spesso risulta disfunzionale: monitorare costantemente, più volte al giorno per molti minuti e a volte mezzore, parti del corpo che si credono affette da patologia. Quindi un sospetto di tumore al seno porterà alla ricerca ossessiva di noduli, un gonfiore improvviso sul collo alla ricerca di eventuali linfonodi. Spesso si ricorre alla manipolazione ossessiva di certe parti del corpo anche molto delicate come il seno, al punto da causare lividi o lesioni, oppure si eseguono frequenti radiografie, lastre o esami del sangue alla ricerca della conferma di ciò che si sospetta.

Ciò che terrorizza di più non è tanto l’idea della morte in sé quanto l’immaginario che ci crea sulla sofferenza a cui si andrà incontro in un ipotetico percorso di cura: “Chi si prenderà cura di me?”, “ Come farò a star dietro alla mia famiglia se sarò malata?”, “Nessuno mi vorrà più in queste condizioni!!”

Il livello di insight, ovvero di consapevolezza, spesso è alto: spesso si riconosce razionalmente di avere delle paure esagerate.

Il disturbo può insorgere a qualsiasi età anche se la prevalenza è in età adulta e non vi è distinzione di sesso in merito.

Ma perché si diventa ipocondriaci?

Le cause, che chiameremo fattori predisponenti, includono esperienze pregresse correlate alla salute o alla malattia vissute nella propria infanzia (lutti in famiglia, malattie improvvise o croniche di parenti o amici cari).

Inoltre a questo si aggiungono il background familiare e le credenze “ereditate” dall’ambiente circostante, che sono condivise e accettate come tali e che possono influenzare nell’interpretazione dei propri sintomi. Anche l’apprendimento sociale, ovvero genitori che trasmettono preoccupazioni eccessive su pericoli potenziali, assunti negativi e rigidi sulla salute, credenze superstiziose e modelli di comportamento disfunzionali in risposta a problemi di salute, che inducono il bambino ad assumere gli stessi schemi di pensiero e strategie disfunzionali di comportamento.

Anche le influenze mediatiche come internet, campagne di informazione sulla salute, programmi televisivi specifici sulla medicina che a volte parlano di alcune patologie come “mali oscuri”, possono essere una potenziale causa in soggetti vulnerabili.

Eventi precipitanti invece contribuiscono “all’esplosione” del disturbo: eventi di vita stressanti, stati emotivi, esposizione ambientale a fonti di informazione relative alla salute agiscono infatti da amplificatori.

La terapia che sino ad oggi ha avuto maggior successo in termini di risultati è la psicoterapia cognitivo comportamentale: lo scopo principale del trattamento è caratterizzato dalla riduzione di quei circoli viziosi che si creano, quindi riduzione della frequenza e dell’intensità delle preoccupazioni, riduzione dei comportamenti di evitamento e rassicurazione, riduzione dei comportamenti di monitoraggio ossessivo e il miglioramento dello stato generale di benessere.

La fobia sociale, detta anche sociofobia o disturbo di ansia sociale, è uno stato di disagio sociale: consiste nella paura eccessiva e immotivata di trovarsi esposti al giudizio altrui e di agire in modo inadeguato, di vivere quindi una situazione imbarazzante e umiliante.

Si caratterizza per una paura marcata e persistente nell’affrontare molte situazioni sociali o prestazionali, nell’interazione con gli altri o anche semplicemente nell’essere osservati in qualche situazione, tutto ciò fino al punto da interferire in maniera decisa sulla vita giornaliera. E’ una sorta di “vergogna del proprio essere” in pubblico, accompagnata dalla paura di rivelare agli altri i propri sintomi di ansia, ad esempio tremando, balbettando, arrossendo in viso o mostrandosi impacciati nei movimenti.

Se vi riconoscete probabilmente avrete anche la consapevolezza che le vostre paure sono esagerate e irrazionali ma, nonostante ciò, non riuscite in alcun modo a controllarle e sperimentate ansia anticipatoria ogni qual volta che si prospetta la necessità di dover affrontare le situazioni temute.

Ciò che caratterizza la fobia sociale è infatti un’ansia anticipatoria: consiste appunto nell’anticipare, in forma di immagini o pensieri, le conseguenze, in termini di vergogna, inadeguatezza, fallimento, umiliazione, rimproveri, figuraccia, dell’evento sociale temuto. Spesso, prima ancora che l’evento sia vissuto, si fa una previsione di fallimento che, inevitabilmente, aumenta l’ansia e la paura per il contatto sociale. L’ansia anticipatoria in genere è accompagnata da ruminazioni, giudizi negativi su se stessi, tentativi di trovare soluzioni di evitamento, vissuti depressivi.

Essa si manifesta con:

Sintomi a livello fisico

I disturbi psicosomatici sono comuni a tutte le forme di disagio dovute all’ansia, in sostanza si tratta di disturbi somatici che non hanno una causa fisiologica ma appunto psicologica.

Alcuni esempi di sintomi fisici riscontrati nella fobia sociale :

  • Tachicardia
  • Tremori
  • Sudorazione copiosa (iperidrosi)
  • Affanno (iperpnea)
  • Rossore
  • Disturbi gastrointestinali
  • Secchezza delle fauci
  • Spossatezza
  • Sensazione di oppressione e schiacciamento
  • Fatica a parlare e a mantenere stabile il tono della voce
  • Balbuzia
  • Sensazione di nausea
  • Mal di testa
  • Tensione muscolare
  • Mancanza di concentrazione
  • Insonnia

 

Se infatti si decide di affrontare la situazione sociale temuta, molto spesso è obbligata e l’ansia si manifesta con tutta una serie di sintomi che spesso hanno l’esito di confermare le aspettative temute. Ad esempio, se si deve affrontare un colloquio di lavoro importante e si ha già delle previsioni negative rispetto ad esso, è molto probabile che l’ansia possa comportare uno scadimento del colloquio in quanto gli effetti dell’ansia, quali sudorazione, voce tremante, bocca secca, tremori, tachicardia, pallore o rossore, confusione, possono distrarci dall’interlocutore, e più in generale dal contesto, fino a farci assorbire completamente dai propri segnali interni di pericolo che, a circolo vizioso, confermano l’incapacità di sostenere un colloquio. Se, a questo “assorbimento”, si aggiunge il fatto che spesso si ha difficoltà a sostenere lo sguardo dell’interlocutore allora si può comprendere come la valutazione del proprio stato di agitazione possa effettivamente compromettere la prestazione.

Malgrado i sintomi psicofisici siano risposte involontarie attivate in maniera autonoma dal cervello è possibile individuare alcuni pensieri disfunzionali che ricorrono frequentemente e che sono la causa della condizione mentale alla quale il cervello risponde nella maniera sopra descritta: si tende a immaginare situazioni tanto estreme da essere paradossali. Chi soffre di questo disturbo riconosce l’irrazionalità dei propri timori, ma quando si trova ad affrontare la situazione temuta va in ansia e tende ad evitare.

Ecco alcuni pensieri disfunzionali:

Sintomi cognitivi

  • Attenzione polarizzata sulla situazione che si deve affrontare
  • Bassa valutazione di sé
  • Irrealistica percezione degli altri come critici nei propri confronti
  • Rigidità nella concezione del comportamento sociale corretto
  • Paura di non potersi allontanare discretamente da una situazione sociale
  • Valutazione eccessivamente negativa di ogni minima variazione somatica (arrossire)
  • Fantasie negative che producono ansia anticipatoria
  • Paura di rendersi ridicolo
  • Paura di essere riconosciuto come ansioso
  • Senso di inadeguatezza
  • Senso di irrealtà
  • Sentirsi costantemente al centro dell’attenzione
  • Essere molto critici verso se stessi

 

L’ansia posticipata consiste nella valutazione, quasi sempre negativa, che la persona si dà al termine della prestazione. In genere si tende, subito dopo un evento o il contatto con persone di cui si teme il giudizio, a ruminare e a “selezionare” gli aspetti negativi della prestazione. Questa focalizzazione selettiva comporta l’attribuzione di un giudizio negativo che, inevitabilmente, viene generalizzato, per inferenza arbitraria, anche all’interlocutore. Queste valutazioni negative possono comportare giudizi (sono stato goffo, impacciato, imbarazzato, ho fatto una figuraccia, chissà cosa penseranno, non sono all’altezza, non sono adeguato, non sono come gli altri tremavo tutto etc.) che confermano il timore e l’ansia dei rapporti sociali.

Sintomi legati alla sfera emotiva e sensazioni:

  • Senso generale di agitazione e di preoccupazione all’avvicinarsi della situazione temuta
  • Ansia accentuata
  • Sensazione di incapacità
  • Sensazione di essere al centro dell’attenzione e di essere osservati
  • Sensazione di imbarazzo e vergogna
  • Senso di sconfitta e tristezza al termine della situazione
  • Senso di vuoto

 

Situazioni:

Come ogni fobia, la fobia sociale, in particolare nella forma specifica, viene per così dire “attivata” da alcuni stimoli esterni. Nella fattispecie si tratta di situazioni sociali fortemente temute che producono nel soggetto ansia anticipatoria e sintomi psicofisici prima e durante l’esposizione. Nel comportamento evitante queste situazioni costituiscono l’oggetto dell’evitamento.

Alcune delle principali situazioni temute da chi soffre di fobia sociale:

  • Lavorare in pubblico
  • Parlare in pubblico
  • Mangiare o bere in pubblico
  • Partecipare a feste
  • Scrivere o firmare in pubblico
  • Fare acquisti nei negozi
  • Iniziare una conversazione
  • Essere presentati ad altre persone
  • Usare il telefono
  • Dare o difendere le proprie opinioni
  • Incontri con persone sconosciute, del sesso opposto o che li attrae
  • Spazi chiusi dove c’è gente
  • Parlare in un piccolo gruppo
  • Rapportarsi con delle persone importanti o dei superiori
  • Fare o accettare complimenti
  • Essere il centro dell’attenzione

 

Quali che siano le situazioni che generano ansia, l’aspetto precipuo è un’eccessiva e irrealistica apprensione per un giudizio e una valutazione negativa; l’ampiezza degli evitamenti comporta una limitazione o uno scadimento del livello di vita sociale del soggetto.

Il più delle volte si tratta di paure diffuse:

  • Le persone possono temere di apparire ridicole e di dire cose sciocche
  • Se osservate o interpellate possono avvertire rossore o vampate di calore, o semplicemente temere che ciò possa accadere e che li renda ridicoli
  • Possono non riuscire a scrivere se osservate
  • Possono trovare difficile entrare in una stanza dove altre persone sono già sedute
  • Possono provare un disagio spropositato in una festa o in una cerimonia
  • Difficilmente riescono a prendere delle iniziative sociali al di fuori di una cerchia intima
  • Possono essere assolutamente impossibilitate ad andare oltre timidi approcci con persone dell’altro sesso, ecc
  • Pur desiderando una serie di attività sociali, devono lottare ogni volta contro tali preoccupazioni e contro stati d’ansia tanto elevati da indurre il soggetto a rinunciarvi, oppure da innescare un circolo vizioso di situazioni di imbarazzo e di “brutte figure”

 

Comportamento:

A livello comportamentale tale condizione di ansia finisce con l’avere un effetto devastante, tanto che quando questi pazienti si impegnano in un’interazione sociale appaiono goffi, rinunciatari o, a volte, aggressivi, e perciò tendono a realizzarsi tutte le loro peggiori previsioni di rifiuto e di insuccesso. Per evitare questi disagi questi soggetti mettono in atto reazioni di evitamento e/o comportamenti protettivi. L’evitamento tende a cronicizzare il disturbo poiché riduce il livello di autostima e alimenta i sentimenti di inferiorità e di inadeguatezza. È anche importante notare che le persone che manifestano precocemente la fobia sociale sono svantaggiate rispetto alle persone non socialfobiche visto che l’evitamento delle situazioni sociali non permette loro di vivere numerose ed utili esperienze che contribuiscono alla maturità intellettiva e sociale.

Questo accade perchè è un disturbo che tende a cronicizzarsi. Il fattore di mantenimento più importante è il comportamento di evitamento messo in atto dall’individuo come risposta alla paura di non essere all’altezza rispetto ad una situazione sociale. L’ansia anticipatoria, rispetto ai rapporti sociali temuti, innesca l’evitamento che mantiene il problema attraverso i seguenti circoli viziosi:

L’evitamento, almeno nel breve periodo, ha la capacità di ridurre l’ansia. Se, ad esempio, si viene invitati ad una festa e si ha paura di conoscere persone nuove che possono creare imbarazzo, vergogna, senso di inadeguatezza ed altre emozioni negative, la persona, sotto la spinta dell’ansia anticipatoria, può decidere di rinunciare all’invito riducendo, temporaneamente, l’ansia ma aggravando i costi futuri.
L’evitamento delle situazioni sociali non permette di smentire le ipotesi catastrofiche della persona circa il contatto con gli altri. Per esempio il soggetto evita di partecipare a una festa perché teme conseguenze negative per la propria immagine. Se la persona rinuncia ad andare a tutte le feste non avrà la possibilità di ricredersi, di constatare che la partecipazione ed il contatto con gli altri non è cosi sgradevole.
L’evitamento delle situazioni sociali impoverisce le abilità interpersonali e quindi il senso di sicurezza del fobico sociale alimentando, a circolo vizioso, il ricorso alla fuga. Spesso il soggetto ha difficoltà a gestire le relazioni interpersonali proprio perché manca di abilità nel comunicare, nell’esprimere le proprie emozioni, nell’affermare i propri diritti, nel saper dire di no.
La fobia sociale tende a cronicizzarsi e a persistere nel tempo se non curata, inducendo chi ne soffre ad evitare le attività a cui vorrebbe, al contrario, partecipare. La cura più efficace per la fobia sociale è rappresentata dalla Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: è centrata sul “qui ed ora”, sul trattamento diretto del sintomo, e punta da un lato a modificare i pensieri disfunzionali, dall’altro a offrire alla persona migliori capacità ed abilità nel affrontare le situazioni temute.

L’inizio della cura secondo la psicoterapia Cognitivo Comportamentale deve, innanzitutto, far luce sui fattori d’esordio e mantenimento del disturbo (cognitivi ed interpersonali) per poi sostituire le strategie di evitamento con forme di esposizione graduale.

Le linee guida generali del trattamento cognitivo comportamentale della fobia sociale prevedono le seguenti fasi:

  • Psicoeducazione: condivisione e personalizzazione del modello cognitivo di sviluppo e mantenimento della fobia sociale, sottolineando soprattutto la funzione di evitamenti e comportamenti protettivi
  • Riconoscimento dei pensieri automatici negativi e delle relative distorsioni cognitive relative a Sé come oggetto sociale: in particolare la tendenza a interpretare gli stimoli ambigui come negativi e a catastrofizzare, personalizzando, gli eventi negativi
  • Imparare a tollerare un giudizio negativo e ad attribuirgli un peso relativo rispetto alla globalità della persona
  • Training di assertività (prevedono l’insegnamento di modalità per gestire le conversazioni, fare richieste ed esprimere i propri bisogni, imparare a dire di no quando se ne ha l’intenzione, gestire le critiche che vengono rivolte
  • Acquisizione di competenze e tecniche finalizzate a migliorare la gestione dell’ansia (respiro lento, rilassamento muscolare progressivo etc.
  • Esposizione graduale, in immaginazione o in vivo, verso stimoli ritenuti pericolosi (tutti i pensieri, le situazioni e le occasioni in grado di innescare l’ansia sociale e quindi tendenzialmente evitati dall’individuo)
  • Sospensione graduale dei comportamenti protettivi e degli evitamento
  • Prevenzione delle ricadute

 

La terapia cognitivo comportamentale della fobia sociale si può condurre ottimamente in sedute individuali. Ciò non toglie che, quando sia possibile, il trattamento di gruppo cognitivo comportamentale per la fobia sociale presenti notevoli vantaggi, a cominciare dal fatto ovvio di essere già in una situazione sociale.

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo è caratterizzato dalla presenza di pensieri ossessivi e comportamenti compulsivi, che costituiscono i principali sintomi del disturbo e rappresentano i criteri necessari per la diagnosi.

Le ossessioni vengono definite come idee, pensieri, impulsi o immagini mentali ricorrenti e persistenti, che vengono vissute dal soggetto, almeno inizialmente, come intrusive e inappropriate. La persona cerca di ignorarle oppure di neutralizzarle attraverso altri pensieri o azioni. Le ossessioni sono riconosciute dal soggetto come un prodotto della propria mente, a differenza dei fenomeni deliranti, dove i pensieri sono ritenuti un’inserzione esterna, nonostante il soggetto ne riconosca l’irragionevolezza e l’estraneità, differenziandosi così dalle preoccupazioni opportune e giustificate, anche se eccessive, tipiche degli altri disturbi d’ansia. Le ossessioni sono quindi egodistoniche, rappresentano cioè un pensiero che contrasta profondamente con le convinzioni della persona.
Le compulsioni vengono invece definite come comportamenti finalizzati e intenzionali emessi in risposta ad un’ossessione secondo modalità ripetitive e stereotipate. Tali comportamenti, manifesti (overt) o nascosti (atti mentali covert), hanno lo scopo di neutralizzare o di prevenire il disagio o il verificarsi di qualche evento temuto. L’attività non è connessa in modo realistico al pensiero, impulso o immagine mentale che dovrebbe neutralizzare e il soggetto si rende conto dell’irragionevolezza del comportamento.

SINTOMI

Ossessioni:

1) Pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel corso del disturbo, come intrusivi o inappropriati e che causano ansia o disagio marcati
2) I pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i problemi della vita reale
3) La persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini, o neutralizzarli con altri pensieri o azioni
4) La persona riconosce che i pensieri, gli impulsi, o le immagini ossessivi sono un prodotto della propria mente (e non imposti dall’esterno come nell’inserzione del pensiero)

Compulsioni:

1) Comportamenti ripetitivi (per es. lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (per es. pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente
2) I comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il disagio o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; comunque, questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi.

La persona riconosce che le ossessioni o le compulsioni sono eccessive e irragionevoli.

Le ossessioni o le compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tempo (più di 1 ora al giorno) o interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico) o con le attività o relazioni sociali usuali.

ALCUNI ESEMPI

Controllo ripetitivo delle cose, a volte dozzine di volte, prima di sentirsi abbastanza sicuri di andare o uscire di casa. I fuochi in cucina sono spenti? La porta è chiusa? L’allarme è inserito?
Aver paura di fare del male ad altri. Esempio: si passa con la vettura su di una buca della strada e si pensa che sia un corpo umano.
Avere l’impressione di essere sporchi e contaminati. Esempio: una donna ha paura di toccare il suo neonato per paura di contaminarlo.
Mettere continuamente in ordine le cose. Esempio: un bambino non riesce a addormentars fintantoché non allinea le sue scarpe.
Essere esageratamente preoccupati di imperfezioni del corpo – sottoporsi a numerose chirurgie plastiche o dedicare molte ore al body-building.
Sentirsi guidati dai numeri, credere che certi numeri rappresentano Dio ed altri il diavolo.
Essere esageratamente preoccupati dai peccati o da bestemmia.

Nonostante il rapido sviluppo della terapia cognitiva, la terapia d’elezione per il disturbo ossessivo-compulsivo rimane quella comportamentale attraverso la tecnica di esposizione associata alle tecniche di prevenzione della risposta. Con tale intervento si vuole agire direttamente sui comportamenti compulsivi, riducendoli, ottenendo così come conseguenza, una modificazione dei pensieri ossessivi. Le tecniche di esposizione consistono nella graduale o meno esposizione alle situazioni che creano ansia e disagio e che sono solitamente collegate alla comparsa delle ossessioni, in presenza o assenza dell’ausilio di tecniche di rilassamento, al fine di aumentare la tolleranza del soggetto all’ansia e consentire allo stesso di affrontare la situazione con meno disagio, riducendo di conseguenza il fenomeno dell’evitamento.

Per disturbo borderline di personalità (DBP) si intende un disturbo di personalità la cui caratteristica è rappresentata da ripetuti cambiamenti di umore, un’evidente instabilità dei comportamenti e delle relazioni con gli altri oltre che una marcata impulsività e difficoltà ad organizzare in modo coerente i propri pensieri. La conseguenza di questi elementi è che, poichè tendono a rinforzarsi reciprocamente, causano una notevole sofferenza nel soggetto oltre che comportamenti che possono essere problematici. Pertanto le persone affette da questo disturbo, nonostante siano dotate di molte risorse personali e sociali, hanno difficoltà a realizzare i propri obiettivi.

Il disturbo di personalità borderline colpisce il 2% della popolazione, più frequentemente il sesso femminile e rappresenta, tra i disturbi di personalità, quello che giunge più facilmente all’osservazione clinica. L’esordio avviene spesso in adolescenza o nella prima età adulta.
Il termine Borderline significa “limite” o “linea di confine”, proprio perchè questo connota la principale caratteristica del disturbo: un’oscillazione tra normalità e follia, dove non vengono considerate le vie di mezzo, paragonabile ad una persona che cammina su una linea di confine che tenderà a sconfinare in due differenti territori,
Ciò che contraddistingue i pazienti Borderline è che alternano, con una buona frequenza, periodi di relativa stabilità, in cui mostrano un sufficiente equilibrio, a periodi in cui il funzionamento psichico appare fortemente destabilizzato, caratterizzata da violente crisi di rabbia, paranoia, autolesionismo e tentativi di suicidio.
In particolar modo il disturbo borderline presenta instabilità emotiva, contraddistinta da marcati e repentini cambiamenti dell’umore: possono oscillare rapidamente, ad esempio, tra la serenità e la forte tristezza, tra l’intensa rabbia e il senso di colpa. Alcune volte delle emozioni contrastanti possono essere presenti contemporaneamente, creando confusione nel soggetto stesso e alle persone che lo circondano.
Eventi relazionali spiacevoli, come, ad esempio, un rifiuto, una critica o una semplice disattenzione da parte degli altri, sono spesso la causa di queste “tempeste emotive”.
La vulnerabilità emotiva, ovvero la reazione emotiva di chi ha questo disturbo, è molto più immediata, marcata e duratura rispetto a quella delle altre persone, causando disregolazione emotiva, ovvero difficoltà nella gestione delle proprie emozioni.
I soggetti con disturbo borderline di personalità, nel tentativo di controllare i propri picchi emotivi, ricorrono all’azione impulsivamente, agiscono senza riflettere, con esplosioni di rabbia, litigi violenti fino alla rissa, abuso di sostanze, abbuffate di cibo, gioco d’azzardo, promiscuità sessuale, spese sconsiderate. Possono essere presenti, a volte anche in modo ricorrente, atti autolesivi (es. procurarsi dei tagli sul corpo con delle lamette o delle bruciature con dei mozziconi di sigaretta, bere troppo, ingerire dosi eccessive di psicofarmaci) o tentativi di suicidio.
Un’altra caratteristica è la difficoltà a riflettere sulle proprie esperienze, sui propri stati d’animo e sui propri rapporti interpersonali in modo coerente e lineare. Le conversazioni di queste persone appaiono in genere ricche di episodi, scene e personaggi, ma prive di un filo conduttore evidente. In altri casi, invece, sembra che stiano raccontando “tutto ed il contrario di tutto”: il loro punto di vista su sé stessi o sulle altre persone risulta contraddittorio.
Inoltre le relazioni con gli altri sono spesso tumultuose, intense e coinvolgenti, e spesso estremamente instabili e caotiche. Non esistono le vie di mezzo, sono per il “tutto o nulla”, per cui oscillano rapidamente tra l’idealizzazione dell’altro e la sua svalutazione (es. possono dividere il genere umano in “totalmente buoni” e “totalmente cattivi”). Per esempio i loro rapporti partono solitamente con l’idea che l’altro, che sia il partner o un amico, sia perfetto, completamente e costantemente protettivo, affidabile, disponibile, buono. Basta però un errore, una mancata attenzione, una critica e l’altro viene catapultato dal lato opposto: diventa minaccioso, ingannevole, disonesto, con cattive intenzioni o doppi fini. A volte entrambe le immagini dell’altro, quella “buona” e quella “cattiva,” si presentano contemporaneamente nella mente del soggetto borderline, causando ulteriore caos.
A causa di queste difficoltà si hanno profonde ripercussioni sulla stima di sé, per cui i soggetti con questo disturbo si percepiscono, contemporaneamente, sbagliati e fragili. Compaiono frequentemente nei loro pensierI espressioni come “Non valgo niente!”, “Sono orribile!”. Nel tentativo di correggere questi presunti difetti si giudicano con severità, pretendendo da se stessi dei cambiamenti impossibili: è una battaglia già persa in partenza, che conferma la loro iniziale percezione di essere sbagliati.
L’altro è infatti sentito come giudicante, quasi fosse un nemico da cui difendersi, percependosi quindi come fragili, facilmente feribili ed esposti, senza alcuna possibilità di difesa e di aiuto ad un mondo potenzialmente minaccioso e pericoloso. Inoltre possono presentare degli episodi di ideazione paranoide, in particolari momenti di stress, durante i quali pensano che gli altri abbiano intenzioni malevole e ostili verso di loro. Oppure rispondono allo stress con delle crisi dissociative durante le quali perdono transitoriamente le capacità critiche ed il senso di sé, dove l’emozione dominante è spesso la paura, a cui si associa una sensazione di assoluta solitudine e di totale abbandono da parte degli altri.
Quando riescono a sottrarsi alle forti pressioni cui sono sottoposti, possono distaccarsi da tutto e da tutti: entrano in uno stato di vuoto nel quale avvertono una penosa mancanza di scopi. In questi casi il rischio di comportamenti disfunzionali è alto, in quanto in questi stati sono frequenti le tendenze all’azione, come le abbuffate di cibo, l’abuso di sostanze stupefacenti, gli atti autolesivi e i tentativi di suicidio.

Il disturbo borderline di personalità presenta delle caratteristiche in comune con i disturbi dell’umore, in particolare con il disturbo bipolare. Entrambi i disturbi, infatti, presentano degli stati intensi di euforia e di depressione. Il disturbo borderline, tuttavia, è caratterizzato da una disregolazione emotiva pervasiva e da oscillazioni dell’umore dipendenti dal contesto, in particolare dalle relazioni interpersonali. Nel disturbo bipolare, invece, le oscillazioni dell’umore si presentano in modo ciclico ed indipendente dal contesto. Una corretta diagnosi è ulteriormente complicata dal fatto che circa il 50% dei pazienti borderline manifesta anche un disturbo dell’umore (depressione e disturbo bipolare).
Il disturbo borderline di personalità, inoltre, può essere confuso con il disturbo dissociativo dell’identità, con cui ha in comune un senso di confusione riguardo alla propria identità e le rapide fluttuazioni tra tipi completamente diversi di umore e comportamenti. Nel disturbo borderline, tuttavia, le alterazioni dell’identità non si aggregano in distinte personalità con diversi nomi, età, preferenze, ricordi e amnesie per eventi passati, come avviene nel disturbo dissociativo dell’identità.
Bisogna anche differenziare il disturbo borderline di personalità da altri disturbi di personalità con caratteristiche simili, in particolare il disturbo dipendente di personalità e il disturbo istrionico di personalità, con i quali ha in comune il timore dell’abbandono da parte delle persone significative, il senso di vuoto e l’idea di essere sbagliato. Un’ultima distinzione va fatta tra il disturbo borderline e la schizofrenia I due disturbi hanno in comune alcuni sintomi psicotici, ma nel disturbo borderline questi risultano temporanei e dipendenti dallo stato del paziente o dal contesto. I soggetti borderline, infine, hanno un funzionamento personale e sociale maggiore rispetto alle persone affette da schizofrenia.
Possibili cause
La letteratura è concorde nell’indicare come fattori di rischio del disturbo borderline di personalità due aspetti che interagirebbero tra loro potenziandosi reciprocamente:
un’infanzia trascorsa in un ambiente invalidante, cioè un contesto in cui il soggetto può essere stato esposto a svalutazione dei propri stati mentali (pensieri, emozioni e sensazioni fisiche), interazioni caotiche ed inappropriate, espressioni emotive intense, carenze di cure, maltrattamenti e abusi sessuali;
fattori genetico-temperamentali, che predisporrebbero il soggetto allo sviluppo della disregolazione emotiva.

La depressione è un disturbo dell’umore caratterizzato da una costellazione di sintomi cognitivi, comportamentali, somatici ed affettivi, che nel loro insieme sono in grado di diminuire significativamente la capacità di funzionamento di una persona, la sua abilità ad adattarsi alla vita sociale.

All’interno del modello cognitivo-comportamentale, pensieri, umore, fisiologia e comportamento rappresentano aspetti importanti dell’esperienza della depressione e sono considerate componenti diverse dello stesso fenomeno. In quanto tali, interagiscono tra loro e ciascuna di esse puo’ esercitare un ruolo causale o comunque contribuire a mantenere la depressione.
Un episodio depressivo viene in genere sollecitato da un evento negativo, ed e’ normale sentirsi tristi per esempio a seguito di una perdita, dove la tristezza spinge l’individuo verso l’accettazione della perdita stessa e in un secondo momento al disinvestimento emotivo. Spesso le avversità però possono farci pensare di essere incapaci, o che il destino è contro di noi e ingiusti e il futuro incerto. Queste “convinzioni” su noi stessi, sul mondo, se rappresentano un modello stabile di lettura della realtà, possono renderci più vulnerabili a sperimentare episodi depressivi.
Quando il senso di perdita si generalizza a tutto il mondo e al se’ interno la persona si sente disperata e impotente, innescando una spirale negativa in cui cognizioni, umore, fisiologia e comportamento innescano l’una nell’altra una serie di reazioni a catena, determinando un peggioramento della depressione stessa. Le persone depresse di solito vedono se stesse, l’ambiente circostante e il proprio futuro in modo negativo, e di conseguenza la vita e le relazioni ne risultano compromesse.. Pensieri negativi, umore depresso, funzionamento fisiologico rallentato o agitato e comportamento passivo e ritirato in se’ stesso costituiscono fattori che, nel loro insieme spingono l’individuo sempre piu’ giu’. Si crea cosi’ un circolo vizioso dove la persona riceve meno rinforzi positivi dalla vita e sentendosi impossibilitata a migliorare le cose, si impegna e di conseguenza ottiene, sempre meno. Molto spesso, inoltre, chi soffre di depressione non viene del tutto compreso dalle persone che gli stanno intorno, anche dai più stretti familiari, che sovente utilizzano espressioni come “tirati su”, “reagisci”, “dai, basta un po’ di buona volontà per risolvere tutto”

I criteri diagnostici per l’Episodio Depressivo Maggiore (DSM- IV- TR) sono i seguenti:

Cinque (o piu’) dei seguenti sintomi sono stati contemporaneamente presenti durante un periodo di due settimane e rappresentano un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento; almeno uno dei sintomi e’ costituito da 1) umore depresso o 2) perdita di interesse o piacere

1) umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto (ad es. si sente triste o vuoto) o come osservato dagli altri (ad es. appare lamentoso). Nei bambini e negli adolescenti l’umore puo’ essere irritabile
2) marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attivita’ per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno (come riportato dal soggetto o riportato dagli altri)
3) significativa perdita di peso, senza essere a dieta, o aumento di peso (ad es. un cambiamento superiore al 5% del peso corporeo in un mese), oppure diminuzione o aumento dell’appetito quasi ogni giorno. Nei bambini considerare l’incapacita’ di raggiungere i normali livelli ponderali
4) insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno
5) agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (osservabile dagli altri, non semplicemente sentimenti soggettivi di essere irrequieto o rallentato)
6) faticabilita’ o mancanza di energia quasi ogni giorno
7) sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati (che possono essere deliranti), quasi ogni giorno (non semplicemente autoaccusa o sentimenti di colpa per essere ammalato)
8) ridotta capacita’ di pensare o di concentrarsi, o indecisione, quasi ogni giorno (come impressione soggettiva o osservata dagli altri)
9) pensieri ricorrenti di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicidarla senza un piano specifico, o un tentativo di suicidio, o l’ideazione di un piano specifico per commettere suicidio.

Gli interventi psicologici sulla depressione, ovvero la psicoterapia, sono i piu’ svariati, e tra questi la terapia cognitivo-comportamentale e’ risultata particolarmente efficace e la piu’ utilizzata. Può essere integrata con l’approccio farmacologico e anche, in molti casi, sostituirlo del tutto, dal momento che la depressione è caratterizzata da convinzioni, pensieri negativi su noi stessi, sulla nostra situazione e sul futuro, e da comportamenti che la mantengono e alimentano.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale infatti interviene sulla depressione a tutti i livelli.
A livello cognitivo si insegnano tecniche di terapia cognitiva per correggere i pensieri distorti e pensare in modo piu’ realistico. Sul piano dell’umore si insegnano tecniche di autocontrollo per gestire meglio le emozioni negative. A livello fisiologico si insegna l’uso di tecniche di rilassamento, meditazione per sedare il corpo e focalizzare l’attenzione. Infine le tecniche comportamentali utilizzate sono la programmazione di attivita’ e l’addestramento alle abilita’ sociali, per aiutare il paziente a comportarsi in modo piu’ costruttivo.

Tutte queste tecniche hanno lo scopo di innescare una spirale positiva in modo che la persona, anziche’ ottenere sempre meno dalla vita, sia in grado di sfruttare tali strategie e ottenere quindi risultati migliori. L’obiettivo e’ di sollecitare cognizioni, emozioni, stati fisiologici e comportamenti in grado di generare risposte positive che aiutino il soggetto ad uscire dalla depressione. La terapia cognitivo-comportamentale e’ un approccio che valorizza gli aspetti adattivi della persona, favorisce il miglioramento delle sue capacita’ e abilita’ che le consentono di superare il disturbo depressivo piu’ velocemente e mantenere autonomamente i miglioramenti ottenuti.

Con il termine Perfezionismo si fa riferimento all’abitudine a chiedere a se stessi o agli altri una prestazione di qualità superiore rispetto a quella richiesta dalla situazione. Tale tendenza implica la valutazione critica del proprio comportamento (Frost et al., 1990) e inoltre un continuo stato di ansia (Hamachek,1978) dato dalla necessità di fare sempre meglio in una continua sfida contro se stessi invece che con se stessi.

CARATTERISTICHE PERFEZIONISTICHE:
(Hewitt e Flett,1991)

  • Timore delle critiche
  • Tendenza a credere che gli altri (significativi) abbiano delle aspettative elevate nei loro confronti
  • Autovalutazioni severe e tendenza ad incorrere ad un pensiero di tipo “tutto o nulla”, dove i risultati possono essere solo un totale successo o un totale fallimento
  • Interpretazione degli errori come indicatori di fallimento e credenza che, a causa di questi, venga meno la stima altrui
  • Attenzione selettiva agli errori
  • Standard irrealistici accompagnati da notevole impegno per raggiungerli
  • Dubbio sulla capacità di portare a termine un compito in modo corretto

Il perfezionismo clinico va distinto dalla “salutare ricerca di eccellere” (Burns, 1993):
quest’ultima è infatti funzionale e positiva e non è implicata nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi psichiatrici.

Hamachek (1978) distingue tra perfezionismo normale e perfezionismo nevrotico:

  1. Perfezionismo normale: permette alla persona con elevati standard di poter affrontare le situazioni “sentendosi liberi di essere meno precisi di quanto la situazione lo permetta”
  2. Perfezionismo nevrotico: consente molta meno possibilità di errore, pertanto la persona si sente come se non avesse fatto abbastanza/abbastanza bene.

 

DIFFERENZA TRA PERFEZIONISMO MALATO E PERFEZIONISMO NORMALE

Perfezionismo Nevrotico

  • Paura di fallire
  • Costante insoddisfazione per i propri risultati
  • Convinzione che per ottenere l’approvazione degli altri sia necessario dimostrare di essere intelligenti: l’unico modo è mettere in evidenza i risultati raggiunt
  • In caso di fallimento si verifica un abbassamento dell’autostima, nonché un forte auto-criticismo
  • E’ necessario avere sempre il controllo delle proprie emozioni

 

Perfezionismo Normale

  • Creatività ed ottimismo
  • Lo sforzo è considerato in termini positivi, apporta sentimenti di gioia e soddisfazione
  • Convinzione che non è necessario far colpo sugli altri per ottenere la loro approvazione, ognuno viene accettato a prescindere
  • L’errore è visto come una possibilità di apprendimento
  • Non si teme il giudizio negativo degli altri

 

CONSEGUENZE COMPORTAMENTALI DEL PERFEZIONISMO CRONICO:

  • ipercompensazione (ripetere più volte il compito per essere certi che non sia sbagliato)
  • eccessivo controllo e ricerca di rassicurazioni
  • ripetere e correggere più volte
  • eccesso di organizzazione e di esecuzione di liste
  • difficoltà nel prendere decisioni per la possibilità di commettere un errore irreversibile
  • procrastinazione per la paura di non soddisfare gli obiettivi
  • non sapere quando terminare
  • abbandonare troppo presto per l’ansia di non essere in grado di soddisfare un determinato standard
  • lentezza per incorrere con meno probabilità in errori
  • difficoltà nel delegare a meno che non si sia certi che l’altra persona completerà perfettamente il compito
  • tendenza all’accumulo perché l’oggetto un domani potrà servire
  • disagio al pensiero di dover buttare via un oggetto
  • evitamento delle situazioni che potrebbero far provare l’impossibilità di soddisfare lo standard imposto
  • tentativi di cambiare gli altri perché eccessivamente preoccupati di come dovrebbero essere fatte le cose.

I pensieri automatici negativi sono prodotti della nostra mente, creati a partire dalle nostre convinzioni profonde sul rapporto tra noi, le altre persone, il mondo. Queste convinzioni, dette schemi, derivano a loro volta in larga parte dalla nostra esperienza di vita. Sono pensieri immediati, a connotazione negativa, appena sotto la soglia della consapevolezza e quindi richiamabili alla coscienza. Essi si manifestano tramite concetti verbali o immagini visive e vengono giudicati credibili dalla persona che li esperisce. Dai pensieri automatici negativi nascono le emozioni spiacevoli.

Quando sono presenti veri e propri errori di ragionamento si parla di distorsioni cognitive, che come conseguenza hanno emozioni spiacevoli.

Le più comuni sono:

  • Il pensiero dicotomico (o tutto o nulla): una situazione o è un successo oppure è un fallimento, non esistono gradi intermedi, se una situazione non è perfetta è un completo fallimento
  • L’ipergeneralizzazione: il fare, come si dice, “di tutt’erba un fascio”, un evento negativo non è semplicemente qualcosa che in quella circostanza è andata male, ma è la prova che la vita è fatta solo di eventi negativi
  • L’astrazione selettiva: cioè il puntare l’attenzione su di un solo aspetto (negativo) di una situazione ignorando tutto il resto (positivo) (ad esempio, il professore loda l’elaborato e suggerisce alcune modifiche marginali e questo viene vissuto come un giudizio negativo su tutto il lavoro senza tener conto dei giudizi positivi)
  • Il minimizzare i lati positivi: le cose positive sono in contrasto con la visione negativa e vengono perciò minimizzate, attribuite al caso o all’educazione, alla gentilezza degli altri (“era una cosa secondaria … per una volta ho avuto fortuna, lo dicono per educazione, perché certe cose non si dicono in faccia …”)
  • L’inferenza arbitraria: il saltare, cioè, alle conclusioni partendo da premesse che in realtà non giustificano tali conclusioni. Ad esempio, se il soggetto vede un conoscente che attraversa la strada prima di incrociarlo, penserà “Non ha voluto incontrarmi”
  • La catastrofizzazione: il giudicare gli eventi negativi come intollerabili catastrofi, una brutta figura viene vissuta come una cosa terribile, un’umiliazione intollerabile
  • Il ragionamento emotivo: il considerare, cioè, le reazioni emotive come prova di qualcosa (“Mi sento spaventato, questo vuol dire che la situazione è veramente pericolosa”)
  • La doverizzazione: il giudicare se stessi e gli altri sulla base di ciò che uno “dovrebbe” comportarsi o sentire (“Se è un amico, deve stimarmi, perché bisogna stimare gli amici”)
  • L’etichettamento: il definire le cose con un’etichetta globale invece che facendo riferimento a cose specifiche, come ritenersi “un fallimento” piuttosto che ammettere di essere incapaci di fare una cosa specifica
  • La personalizzazione: il ritenere se stessi responsabili di qualcosa di cui, in realtà, sono soprattutto responsabili altre persone o altri fattori.

 

Lavorare sulle proprie distorsioni cognitive è fondamentale ai fini terapeutici